Nasce a Fossa nell’anno 1420 da famiglia nobile e cristiana. Viene chiamato Giovanni, un nome che gli è caro. Viene educato cristianamente dai genitori e all’età di diciotto anni si reca a Perugia per studiare diritto. Porta con sé il ricordo di Bernardino da Siena e a Perugia è scosso dalla predicazione di Giacomo della Marca. Scopre che Dio lo chiama ad un impegno più radicale. Dopo aver a lungo riflettuto, si reca nel convento di Monteripido per chiedere a Giacomo della Marca di accoglierlo nell’Osservanza francescana. Avuta buona accoglienza vi ritornò per chiedere di poter conservare il nome di Giovanni che gli era caro. Ma fu qui che avvertì il primo sconcertante strappo. Appena posto piede nel grande chiostro vede sul lato opposto Giacomo della Marca che, volgendosi a lui gli dice ad alta voce: “Benvenuto, frate Bernardino! Così voglio che ti chiami e bada bene di non replicare”. La cosa non fu strana ma profetica: Giacomo di vista debole non poteva riconoscerlo da così lontano e nulla sapeva del desiderio di Giovanni. Così nel 1445 divenne frate Bernardino, nonostante tutti i tentativi di dissuasione. E fu consapevole della eredità che gli derivava dal nome, quella di Bernardino da Siena morto nel 1444. Sarà perciò, fedele alla vocazione nello spirito di San Francesco che ne forgia la personalità e lo pone nella continuità di una famiglia che gli dava l’esempio vigoroso di frati eminenti. Nel quotidiano impegno di crescere completò la sua formazione teologica e coltià lo spirito di devozione imitando San Francesco del quale era stato scritto che “non era tanto un uomo che pregava, quanto piuttosto un uomo diventato preghiera”. Ricevuti gli ordini sacri, incominciò il suo apostolato. Giovanni da Capestrano lo riportò in Abruzzo e qui Bernardino profuse tutto il suo impegno per la crescita della sua “famiglia” della quale fu superiore, per l’equilibrio nei rapporti con i frati nella saggezza e nella comprensione, più incline alla condiscendenza e alla clemenza che alla durezza. Lo stesso atteggiamento dimostrò nel triennio 1461-1464 nel quale fu Vicario per la provincia di Bosnia e Dalmazia. Egli scrive: “per tre anni vissi come tra l’incudine e tre martelli e tuttavia il mio Signore mi concesse una buona grazia; infatti nel nostro triennio furono uniti nella comunione. Da un parte i Bosniaci, dall’altra i Ragusini e dall’altra ancora i Dalmati mi tormentavano”. Inoltre Bernardino s’impegnò per avere nuovi conventi per gli Osservanti.
Nel 1481 aprì il nostro convento di S. Angelo e scrisse la cronaca della presa di possesso. Altra preoccupazione di Berardino, che sente la famiglia dell’Osservanza come madre, è quella di conservarne la memoria. Scrive: “Non senza dolore del cuore scrivo queste cose. So, infatti, che in questa nostra famiglia vi sono parecchi frati, dottissimi nell’arte del dire e di coscienza di tutti, ma non lo hanno fatto, né so che qualcuno lo stia facendo. E affinché queste e altre cose mirabili che la volontà di Dio ha operato in questa famiglia fossero consegnate alla memoria, ne parlai con i frati nel capitolo generale, ma non si ebbe stima profonda della nostra memoria. Per questo, sebbene non sia esperto nell’arte del dire, tuttavia volli piuttosto esporre la verità con stile rustico per consolazione dei posteri e per loro informazione affinché tante cose degne di perpetua memoria passino per un dannoso silenzio. E voglio piuttosto essere rimproverato per la presunzione che per un inutile silenzio”. Bernardino, impegnato a salire sempre più in alto nella scienza dei santi, non trascurò di incitare gli altri, fedele all’esempio di San Francesco al quale fu rivelato da Dio che non doveva vivere solo per sé ma doveva giovare agli altri e quindi uscire a predicare. Così Bernardino da Fossa si inserisce nella schiera di quei predicatori popolari che si rifanno a Bernardino da Siena per rispondere ad esigenze nuove del popolo ed annunciare efficacemente la parola di Dio. Fedele allo spirito Senese, Bernardino da Fossa si esprime in forme rispondenti ad una cultura nuova e si preoccupa di farsi capire dagli ascoltatori. Il suo parlare ha la freschezza del colloquio e si sente il gusto della linfa popolare. Inoltre, come i predicatori popolari del tempo, si serve di immagini e quadri viventi o anche di giochi scenici. Oggetto della sua predicazione sono i misteri del Signore Gesù, della Beata Vergine Maria, dei Santi. E poi i problemi morali sulle virtù e i vizi degli uomini, sui sacramenti, sui problemi della vita e della morte, sulle tentazioni e sulla vita futura. È interessante notare l’uso che egli fa della Divina Commedia di Dante e degli esempi presi dalla Sacra Scrittura, dalla storia, dall’esperienza quotidiana. In questo modo invita a riflettere e ad attualizzare per tradurre in pratica di vita. Con molta umiltà dice di sé: “Avido nella mia prima gioventù di imparare tutte le scienze approvate dalla santa Chiesa, mi posi a studiare e ne feci qualche profitto, ma venuto poi alla religione, a questa scuola dove di insegna la scienza del ben fare, per molto che nei molti anni della vita avessi faticato ad apprenderla, confesso che non sono riuscito punto buono scolare”. L’atto di umiltà che porta Bernardino a confessare di non aver ancora appresa la scienza del ben fare, ci fa scoprire la dimensione della speranza nella sua vita. Bernardino fu un uomo in cammino, in continua ricerca. Così scoprì che Dio è sempre coltre le realizzazioni umane e gli stessi desideri.
SAN CESIDIO GIACOMANTONIO
Angelo Giacomantonio, questo il nome con il quale San Cesidio fu battezzato il giorno stesso della sua nascita, nacque a Fossa da Giacomo e Maria Loreta Antonucci il 30 agosto 1873. Quarto di sette figli (Donata, Francesco, Sabatino, Domenica, che sarà suor Cesidia, Bernardino ed Antonio), Angelo fu educato nel rispetto dei sentimenti umani e religiosi e nella fedeltà ai propri doveri cristiani. Sentimenti che trovano la loro espressione non soltanto nella frequenza alla liturgia domenicale, ma anche nella partecipazione diretta e personale nella vita e nell’organizzazione parrocchiale. E fu proprio tale dedizione per la chiesa matrice, oltre che le frequenti visite al vicino convento francescano di Sant’Angelo, che portarono, gradualmente, Angelo a scegliere la vita religiosa nella sequela di San Francesco. Il 21 novembre 1891, nel silenzio mistico della chiesetta conventuale di San Giuliano, Angelo vestiva il saio francescano, prendendo il nome di fra Cesidio. Il nome di Cesidio fu scelto dallo stesso Angelo, il quale pregò il padre Provinciale di lasciargli almeno il suo secondo nome. Compiuto lodevolmente l’anno di noviziato all’insegna dell’obbedienza, dello studio e della preghiera (così scrisse nei suoi diari il giovane fra Cesidio), fu ammesso al corso di studi filosofici e teologici in preparazione al sacerdozio. Dal 1892 al 1897 continua a dimorare in San Giuliano, nel clima d’autentica spiritualità francescana risalente al suo fondatore San Giovanni da Capestrano, autentica guida della comunità aquilana, e nel ricordo di tanti santi abitatori del convento, fra i quali i beati Bernardino da Fossa, Vincenzo dell’Aquila, Timoteo da Monticchio e tanti altri venerabili minoriti. Compiuto il corso teologico fu ammesso alla professione solenne l’8 dicembre 1985, al suddiaconato l’anno successivo, al diaconato nel 1896 e, finalmente, l’11 luglio 1897, ricevette la sacra unzione sacerdotale per mano dell’Arcivescovo Ordinario dell’Aquila Mons. Carrano. Fu subito destinato al convento di Capestrano dove rimase appena un anno perché già nel 1898 P. Cesidio fu trasferito al convento di S. Martino in Magliano dei Marsi, eletto a “Sacro Ritiro” dal Ministro Generale P. Venanzio da Celano. Fu proprio in San Martino che l’ardore missionario esplose quasi violentemente, tanto che il giovane P. Cesidio non seppe più resistervi e ne avanzò formale domanda al Ministro Provinciale del tempo, P. Nunzio Farina il quale tuttavia, in più di un’occasione rifiutò tale richiesta. Fu solo qualche anno più tardi che la Provvidenza gli offrì l’occasione immediata per realizzare senz’altri indugi la sua vocazione missionaria. Incontrò, infatti, un valoroso ed esperto missionario, il capestranese P. Luigi Sonsini tornato in patria dopo oltre trent’anni di missione in Cina per arruolare altri “soldati di Cristo e del Vangelo”. P. Sonsini seppe sollecitamente trattare e risolvere il caso presso il governo dell’Ordine e ben presto P. Cesidio ottenne la tanto desiderata Obbedienza del Ministro Generale: sarebbe stato Missionario in Cina. Lasciò l’Italia il 19 ottobre 1899, insieme ai due confratelli Bonaventura Schiavo da Sulmona e Gerolamo Costa da Viterbo, e approdò in Cina il 1 novembre dello stesso anno. Qui, dopo alcuni mesi d’istruzione di lingua e costumi cinesi, fu destinato a reggere la stazione missionaria in Tai-tung, nel Vicariato di Han-kow, nella regione dell’Hunan. Dalla corrispondenza di quei giorni con i familiari si intuisce che il cuore del giovane missionario bruciava d’ardore per la salvezza delle anime, di zelo per la gloria di Dio e, come lieto e pronto era stato a rispondere alla chiamata divina, così pieno d’entusiasmo si sentiva a dare anche la vita per Cristo e per il Vangelo, pronto anche al martirio, se così fosse stato nei disegni di Dio. Aveva un solo desiderio: evangelizzare, convertire, battezzare, portare anime a Dio! Frattanto, la situazione politica diventava, giornalmente, sempre più confusa, fragile l’ordine pubblico, in mano a governatori molto spesso corrotti o succubi delle prepotenze dei rivoluzionari. S’andava infatti rinfocolando un generalizzato sentimento xenofobo, alimentato dall’azione degli aderenti al movimento dei “Pugni Uniti” o “Boxers”, pronti e decisi ad espellere, anche a trucidare, gli stranieri, in particolare cristiani, sui quali facevano ricadere i malanni del momento: fame, siccità, inondazioni, malattie. Atto conclusivo ed esplosivo di questo diffuso animo avverso a stranieri e missionari, fu l’editto imperiale del 1 luglio secondo il quale bisognava colpire la Chiesa in quanto portatrice di novità aliene dallo spirito e dalla tradizione genuina cinese. Nell’Hunan tuttavia continuava a regnare una certa tranquillità. Ora, P. Cesidio decise di recarsi nella residenza episcopale di Hoaxa-xa-wan: era il 3 luglio 1900. A dir il vero i suoi cristiani l’avevano esortato a non mettersi in cammino perché correvano voci, circostanziate, di un’insurrezione anti-europea e anti-cristiana imminente, ma egli protestò che, alla fine, era pronto anche al martirio, e che Iddio gli avrebbe dato il coraggio e la grazia necessaria. Il 4 luglio, nelle prime ore del pomeriggio, la residenza missionaria dove P. Cesidio si trovava insieme al vecchio missionario P. Quirino Henfling, fu raggiunta e assalita dai Boxers i quali con ferocia inaudita e armati con bastoni, spade e pietre dapprima incendiarono la chiesa e poi colpirono i due frati. Alcuni cristiani presenti, con audace intervento, sottrassero alla morte P. Quirino, mentre il nostro P. Cesidio, ricordando l’Eucaristia, tentò di entrare in cappella per preservarla dalla profanazione. Gli assalitori, pensando che volesse fuggire, gli furono di nuovo addosso con lance, pietre e bastoni, lo trascinarono fuori la casa e, ancora in vita, avvoltolo in una coperta cosparsa di petrolio gli diedero fuoco. I cristiani presenti narrarono che il Martire stringeva al petto il Crocifisso e che “tre globi” o “tre nuvolette con al centro una candida figura umana” volteggiarono finchè nessun movimento emerse da quel corpo verginale.
San Cesidio Giacomantonio da Fossa prima di essere riconosciuto nel 2000, da Papa Giovanni XXIII, tra i sommi rappresentanti della cristianità moderna fu semplicemente un uomo come ognuno di noi. Il suo cammino è stato indubbiamente segnato da molteplici domande vissute certamente come profondi tormenti della coscienza alle quali con il suo spirito eletto ha dato un significato supremo. Infatti non quieto di aver dedicato la sua esistenza alla modestia della regola francescana partì giovanissimo in missione non solo per divulgare la parola di Cristo nella Cina del XIX secolo ma anche e soprattutto per prendersi cura di quelle popolazioni. Ma purtroppo li trovò una martirio terribile: bruciò vivo nella chiesa, attaccata a fuoco dagli abitanti, nell’estremo atto di salvare l’ Eucarestia. La piccola comunità di Fossa da sei anni ricorda la figura del suo Santo compaesano, in concomitanza con la data della sua morte avvenuta il 4 luglio del 1900, in una fiaccolata notturna che si estende dal convento di Sant’Angelo D’Ocre , in cui le sue reliquie sono custodite , fino alla Chiesa Parrocchiale di Santa Maria Assunta a Fossa con l’intenzione di volerne rievocare il martirio in un abbraccio finale che lo riaccompagni dolcemente fino al paese natio. Seppure l’arco temporale della santificazione è fin qui breve san Cesidio è molto amato ed il suo culto è particolarmente sentito non solo dall’ intera comunità fossolana ma anche da quanti hanno avuto modo di conoscere la sua vita e la sua missione. Infatti con la sua opera Egli non è solo un umile frate francescano partito da un piccolo borgo medievale per dedicare la sua seppur breve esistenza alla devozionevole cura dei più bisognosi : San Cesidio da Fossa è un icona dell’amore fraterno dell’uomo verso l’uomo senza barriere di lingua, status sociale, appartenenza territoriale o ideologica il cui messaggio non può e non deve andare dimenticato. Nell’Abruzzo delle montagne mistiche e meditative patria di eremi , abbazie e conventi , di piccole Chiese di campagna e soprattutto di quello stesso San Celestino V intrepido fautore di un antico messaggio di concordia e perdono tra gli uomini , secoli dopo rivive ancora , in questo piccolo centro urbano a pochi chilometri dall’ Aquila , grazie all’ opera di un suo umile figlio un insegnamento di pace , amore e fratellanza. A chi intenderà condividere il suo ricordo ed il suo messaggio distaccandosi per qualche ora dalla frenesia della vita moderna l’appuntamento viene rinnovato ogni primo sabato del mese di luglio a partire dalle ore 18.00 nel Convento di Sant’Angelo D’Ocre.
SAN MASSIMO D'AVEIA
Nacque intorno all'anno 228 ad Aveia, oggi Fossa, da una famiglia cristiana che lo fece studiare e lo avvicinò al Cristianesimo.
Fu imprigionato durante le persecuzioni di Decio tra l'ottobre 249 e il novembre 251. Condotto dinanzi al prefetto di Aveia, Massimo non rinnegò mai Gesu' Cristo e la sua fede in lui, neanche sotto tortura. La tradizione vuole che il prefetto gli aveva persino promesso la figlia, ma non abiurò e alla fine fu gettato dalla rupe più alta della città, detta Circolo e Torre del Tempio, dove si trova il castello di Fossa. Poi il corpo fu venerato in un sacello di Aveia. fino al VI secolo.
Dopo la distruzione di Aveia da parte dei Longomardi nel VI secolo, le reliquie di san Massimo furono portate a Forcona (L'Aquila), dove venne eretta una cattedrale in suo nome, ancora oggi esistente, accanto la chiesa di San Raniero (via Marsicana), che fu sede della diocesi di Amiterno sino al 1257, quando la diocesi fu spostata nella neonata città de L'Aquila, fondata nel 1254. Il 10 giugno 956 l'imperatore tedesco Ottone I e il papa Giovanni XII si recarono a venerarle. Pertanto il 10 giugno è il giorno in cui si celebra la sua festa a L'Aquila.
Nel 1256 le reliquie furono spostate a L'Aquila, appena fondata da Federico II, e tumulate nella cattedrale dedicata a Lui e a San Giorgio.